MICK TAYLOR’BLUES….

  Sì è vero, da buon dylaniano (demente) sono andato a vedere qualche sera fa Mick Taylor solo perché vent’anni fa e più fu il chitarrista di Bob Dylan nel corso del suo tour 1984 (passato alla storia come “la prima volta in Italia”). E poi perché Mick Taylor (insieme a Mark Knopfler) suona in quella che per me è la più bella canzone di Bob Dylan di sempre, subito dopo Like a Rolling Stone. Titolo: Blind Willie McTell (che non è altro che – musicalmente – il riadattamento del vecchio blues St. James Infirmary, ma ha un testo da pelle d’oca come solo Dylan può…).Un paio di mesi fa avevo incontrato proprio Mark Knopfler e gli avevo chiesto di quella famosa session: ne registrarono diverse take e solo quella in versione acustica – con il solo ex Dire Straits – è stata pubblicata ufficialmente. Quella full band, con anche Taylor, ce l’ho nel mio reparto bootleg. Tipico di Taylor, non essere riconosciuta la bontà del suo lavoro. Ma se io ero lì per Dylan (nel pomeriggio, durante un incontro con i fans, Taylor dice: “Non mi piace Bob Dylan. Lo adoro”) il resto del pubblico era lì perché lui era stato, dal 1969 al 1974, la chitarra dei Rolling Stones. Se ne andò, pare, perché loro non gli riconoscevano i suoi meriti compositivi, per legge di Dio sempre appannaggio della ditta Jagger/Richards (vero Marinane Faithfull?).Ma è un dato di fatto che i dischi in studio più belli del gruppo sono quelli con Taylor (Let It Bleed, Sticky Fingers ed Exile on Mina Street).Ragazzo prodigio, a soli vent’anni infiamma quelli che sono anche i più bei dischi di John Mayall (ascoltatevi Blues from Laurel Canyon, recentemente edito in versione deluxe, forse il più bel disco di blues degli anni 60), Mick Taylor sale sul palco con una “panza” da devoto bevitore di birra grossa così, ma poco importa: accompagnato da un quartetto formidabile e con ospite in qualche brano l’armonicista Sugar Blue, residente a Milano (immaginate il John Popper dei Blues Traveler e capirete che musicista straordinario sia) Mick Taylor ha eseguito un set devastante nel suo calore al blues “bianco”.

Se chiudi gli occhi senza sapere chi c’è sul palco, pensi ci sia Eric Clapton, ma quello dei Cream o quello di Derek and the Dominoes, non quello amorfo di tanti dischi recenti. Passando, nel corso dello stesso pezzo dalla slide al wah wah hendrixiano e tornando con furore in un solismo spinto al massimo, ricco di vibrazioni rock-blues tipicamente sixties e da qualche sapore psichedelico, ha sciorinato versioni di standard blues ognuna di almeno dieci minuti di crescendo parossistici. Su tutte, una Stop Breaking Down di Robert Johnson veramente “sulfurea” e un medley che potevo solo sognare: Blind Willie McTell con un passaggio intermedo di Layla di allmaniana memoria, All Along The Watchtower e ritorno a Blind Willie McTell. Da urlo. I vecchi amici degli Stones li ha invece beffeggiati come meritano: “Questo è un pezzo di una band in cui suonavo. i….. cough cough” (fa finta di tossire e non ne cita il nome. Esegue una Can’t You Hear Me Knocking – da Sticky Fingers – in versione jazzy solo strumentale, come dire: Mick Jagger non ci serve, questa sera… Grande). Se, per dirla alla Dylan, nessuno canta il blues come Willie McTell, nessuno lo suona come Mick Taylor.

Paolo Vites

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