BRUCE SPRINGSTEEN: MAGIC

 Sensazioni contrastanti, quelle che mi lascia (dopo qualche giorno che lo sento) il nuovo Magic di Bruce Sringsteen. Sensazioni contrastanti e non sempre chiare. Per una recensione completa del disco vi propongo un salto sul blog di Paolo Vites (http://gamblin–ramblin.blogspot.com/2007/09/ill-work-for-your-love.html) che do per certo sia la miglior disamina del prodotto, qui provo a dire la mia, magari in un modo un po’ selvaggio, ma che spero comprensibile.
Parlando del disco dirò che ovviamente è da ascoltare, senza problemi: si ascolta bene, ha un buon paio di pezzi di partenza (ok sia per Radio Nowhere che per You’ll be comin’ to town), qualche ballata che funziona, un po’ di archi insoliti e per questo divertenti (ci sono pezzi che paiono suggeriti dagli Oasis, altri dagli XTC….), qualche accostamento cromatico innovativo per il Boss, alcune tracce veramente sotto tono. Su tutto, almeno per chi scrive, un pezzo, uno solo: Gypsy biker, potente e iroso come pochi.
Dove voglio andare a parare? Ecco qua: per me Bruce è stato in alcuni momenti l’incarnazione del rock. Alcuni pezzi sopra tutti gli altri. Born to run, The river, Thunder road. Ma il mio pensiero lo si decifra meglio partendo dalla prima canzone che abbia mai sentito di Springsteen: It’s hard to be a saint in the city. Questo per me è il rock: qualcosa di così potente e urgente, di così pressante e travolgente, che lo devi dire, lo devi cantare “a prescindere”…. A prescindere dal tempo, dalla metrica, dalla confezione, qualcosa che è dentro e urge, oltre ogni possibile riflessione o mediazione, una cosa che prende te che lo scrivi e lo canti così come coinvolge tu che lo senti. In questo senso Bruce “era” il rock. E quindi: il rock è solo giovinezza, perché poi invecchiando nulla più ha quella stessa forza trascinante e coinvincente oltre ogni schema? Ognuno dia la sua riposta. Il Bruce di Magic non ha più che pochi branelli di “quel” rock: qui è tutto calcolato, pensato, centellinato. Non si sente il rock che prende possesso dell’autore (si sentano i 30 e passa minuti di In memory of Elyzabeth Reed nell’Official Bootleg di Dickey Betts: qui si esagera, certo, e il genere è differente, ma qui è il rock che porta la band e non il contrario; si veda: http://southlanditaly.wordpress.com/category/dickey-betts/….), che lo porta su strade perigliose, ma solo l’autore che tiene al guinzaglio la potenza del genere. Non si sente mai l’accelerazione della forza creativa selvaggia che sfuge al controllo, tranne in Gypsy biker. Anzi, aggiungerei una cosa che potrà sembrare strana: un episodio che trovo molto interessante è al contempo uno dei meno digeribili ed è la strampalata Devil’ arcade, in cui si intuisce che Springsteen dice ai suoi (che – per inciso – se la cavano tutti più che bene), “dai gente, suoniamo un po’, usciamo dalla confezione, diamoci dentro….”. Curioso che il pezzo meno springsteeniano sia quello in cui più la voglia di suonare abbia preso il sopravvento…
Alla fine: Bruce, beh, continuo ad amarlo, mi piace, ma non rappresenta più quello che ha così fortemente cantato-rappresentato. Il disco del “gran ritorno” è allora azeccato per metà: non è una sòla, questo no, il resto manca. Magari tornerà nel prossimo disco, chi lo sa: il rock è come il sentimento insopprimile dell’amore, della felicit o della libertà, viene fuori carsico dove e quando meno l’attendi…. 

Walter Gatti

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