LEONARD COHEN, QUELL’INTERVISTA DEL 1993

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Si è spento Leonard Cohen. Una perdita, un dolore, un’ironia. L’avevo intervistato – per mia fortuna – all’uscita di THE FUTURE. Ecco l’intervista, così come è stata poi pubblicata nel volume “LA LUNGA STRADA DEL ROCK” (Ed. LINDAU).


LEONARD COHEN: GUAI A CHI NON ATTENDE UN MIRACOLO

Divertente e ironico, ovviamente elegante: ecco come è il cantautore canadese. Era il 1993 quando ho avuto l’occasione di incontrarlo, all’uscita di uno dei suoi più bei dischi, The Future. Bel sorriso, grande capacità di parlare di cose tremende sotto il vestito di una canzone leggera. D’altra parte lui stesso mi ha detto che le “lovesong in disguise” sono una delle cose che più gli piacciono.
Titolo originale: Son moderato e ve la canto
Il Sabato, 9 gennaio 1993

Leonard Cohen, professione visionario. Il quasi sessantenne cantautore canadese osserva il mondo, l’osserva attraverso la lente delle sacre scritture, descrive la morte con la cinepresa di Bunuel, invidia la genialità della parola scritta in Garcia Lorca. Cohen è un fastidio, non un mito: niente a che vedere con Dylan. Anche lui incide, ma la sua produzione è ridotta all’osso. I suoi figli musicali però sono molti, da Nick Cave ai Rem, passando per Farbizio de André. Insomma tutti i visionari che popolano il pianeta della musica gli devono qualcosa. E che lui sia il maestro del genere è confermato dal suo nuovo album, The Future, dove, come in un film di Herzog si alternano sulla scena angeli vendicatori ed agnelli sacrificali, ceneri di sieropositivi e senzatetto americani, whisky e spirito santo, Sofocle e Charlie Manson. Nella sua produzione un posto di rilievo lo occupano, oltre ai dischi, sei raccolte di poesie e due romanzi, The favourite game e Beautiful losers. Ecco quello che ci ha raccontato in un hotel milanese, tra una canzone in sottofondo e un whisky pomeridiano.

Mister Cohen, scusi la banalità della prima domanda: si sente poeta, narratore o cantautore?
Cohen: Sinceramente ho sempre cercato di essere un buon giornalista. Di scrivere cose possibilmente reali e attuali.

Strana attualità quella del suo nuovo album, che si apre con una citazione della Genesi e che prosegue con una serie di quadri che sembrano prestati dall’Apocalisse..
Cohen: la Bibbia inizia con la Gensei, che è creazione e non mi sembrava male partire da li. Dopo la creazione viene l’evoluzione e la disintegrazione. Ed io ho voluto ripercorrere queste tappe e comporre un ballo apocalittico. Anche perché l’Apocalisse è il libro che mi pare descriva meglio il presente. In attesa di giungere a vedere il futuro. Sempre che ce ne sia uno…

Non trova piuttosto inquietante il ritornello di una delle sue canzoni, ridatemi Stalin e San Paolo, Cristo o Hiroshima?
Cohen: certo è paradossale, ma riguarda l’attuale assenza di ideali e certezze. Mi pare sia indiscutibile che il mondo è esploso quando, tolta da tempo la verità di San Paolo, è venuto meno anche il muro di Berlino. Esplosi i riferimenti sul male e sul bene, tutto è andato, come in un nuovo big band, verso infinite direzioni senza più nucleo centrale.

Bello, ma non facile. Non ha mai avuto il dubbio di scrivere per un elite?
Cohen: sono trent’anni che scrivo sperando che una mia canzone vada al numero uno in classifica. Solo in Norvegia ho avuto un gran successo: li un mio disco è rimasto per diciannove settimane in vetta alla hit parade. Peccato che la Norvegia abbia gli stessi abitanti dell’Arkanas.

Quando lei dice di “attendersi un miracolo”, a cosa si riferisce?
Cohen: è una finta canzone d’amore, di quelle che spesso mi è capitato di scrivere. Anzi diciamo che le canzoni d’amore che si mostrano come puri travestimenti sono le cose che mi piacciono molto. Uno segue il testo e non sa esattamente dove si trova: in una lovestory, in un processo alla storia, in una confessione evangelica. In ogni caso attendersi un miracolo è un aspetto del nostro essere vivi. Vedo malissimo chi non attende e non spera.

In Democracy, una delle sue nuove canzoni, lei dice non sono ne di destra ne di sinistra e me ne starò a casa stanotte. Disimpegno o sopravvivenza?
Cohen: Beh, non mi è venuta male questa canzone, lei che ne dice?

Si, in effetti è un pezzo interessante…
Cohen: grazie, anche se non doveva esporsi così tanto. Democracy comunque è una canzone scritta da un uomo del centro sotto assalto, che si rifiuta di abdicare al proprio ideale. Non è qualunquismo, è una reazione sincera. Il mito centrale della nostra cultura è l’espulsione di Adamo ed Eva dall’Eden: quando qualcuno – non importa la provenienza politica – promette un nuovo paradiso, è il momento di diffidare.

E in tanti ci hanno promesso l’Eden..
Cohen: tanti, troppi, e sempre con conseguenze disastrose. Non solo in termini di dolore e di morte, ma anche nella perdita di quella spinta a cercare l’eden. Ci accorgiamo che oggi i giovani non lo cercano più?

Ma lei cosa intende per centro?
Cohen: è la posizione che afferma senza annullare, che abbraccia senza autodistruggersi. La grande cultura afferma le altre culture, la grande democrazia e la grande religione affermano e confermano le altre senza abdicare alle proprie responsabilità;

Lei vive in un grande paese di contraddizioni. Democrazia e utopie, razzismo e presidenti democratici…
Cohen: l’ideale democratico oggi è minacciato negli Usa. Il centro non può difendersi e si entra in una mortale centrifuga di estremismo. Il Ku Klux Klan negli Usa è diventato attraente addirittura per molti giovani della middle clas, perché si presenta con argomenti convincenti. Certi fenomeni godono anche di un certo seguito perchè gli intellettuali ci hanno tradito per troppo tempo e ci tradiscono ancora, presentando una visione assolutamente cerebrale delle cose, che non soddisfa i normali desideri di affermazione personale e serenità.

Lontani dalla realtà?
Cohen: gli intellettuali sono lontani da tutto. Dalla realtà, dalla politica, dalla felicità..

In questa terra di apocalisse, di tormenti e di intellettuali lontani si può ancora cantare e ascoltare una canzone come Halleluja?
Cohen: oh, quella canzone è la mia benedizione, almeno quanto è anche la mia maledizione. Comunque se la gente la ascolta, la interpreta e la applaude vuol dire che contiene qualcosa che supera il gusto specifico di una generazione. Ed affermare che alla fine ci rimane solamente un grazie è una affermazione tutta da scoprire. Sempre che ci sia ancora qualcuno che vuol scoprire qualcosa.

Il suo disco si intitola The future. Lei cosa farà nel futuro prossimo, da stasera ai prossimi anni?
Cohen: ho in programma di esibirmi in una lunga tourneé, spero di vendere tanti dischi e di fare poche interviste. E potrei anche rinchiudermi in un monastero. Un po di tempo senza seccature politiche intorno mi farebbe bene.

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