Robben Ford, back home

Robben Ford
Luglio 1990: ero al Pistoia Blues Festival per vedere Jeff Healy; mi aveva incuriosito la sua partecipazione alla pellicola “Il duro del Road House” con Patrick Swayze dove aveva impreziosito il film (filmetto!) con belle canzoni rock-blues. Anche il suo modo di suonare da seduto era molto particolare ma soprattutto mi trasmise da subito una forte e positiva sensazione, quella che viene dalle persone che vivono per la musica e che la usano per comunicare tutto, le loro sofferenze così come le loro gioie. Dicevo, ero a Pistoia per Jeff Healy quando sul palco sale uno sconosciuto, almeno per me, anzi una sconosciuta: da lontano, infatti, le movenze, i capelli lunghi di quella persona che imbracciava la sua Gibson ed avanzava sul palco su vistosi stivali texani mi sembrava una ragazza. Era Robben Ford! Mi innamorai subito della sua voce e del suono della sua chitarra, morbido, ammaliante ma allo stesso tempo sofisticato e coinvolgente. Tornato a casa iniziai le ricerche sul personaggio e sulla sua musica ed approdai al bellissimo disco Talk to your daughter. In realtà nel 1990 Ford era già un musicista maturo ed affermato, alle spalle le collaborazioni con la band del padre (Charles Ford Blues Band) e con grandi personaggi della scena blues (Charles Musselwhite), jazz (Miles Davis) e pop (Joni Mitchell); un’adolescenza in mezzo alla musica (musicisti il padre ed i fratelli), lo studio del sassofono e poi della chitarra, collaborazioni importanti, spaziare dal rock al jazz, dischi d’oro ed un Grammy Award, pochi dischi ma buoni, la voglia di insegnare a suonare (Guitar Dojo), l’uso di chitarre (una Fender Telecaster d’annata ed una Gibson Les Pauls personalizzata) e di strumentazione (il famoso amplificatore Dumble usato da SR Vaughan e da Santana) sofisticate. Tutto questo è Robben Ford che oggi ci presenta Bringing it back home, nuovo lavoro promosso in decine di concerti, molti anche in Italia (in questi giorni di aprile a Roma e Padova ed a luglio a Pistoia). In questo nuovo lavoro sono presenti tutte le grandi passioni di Ford che ha avuto il merito e la fortuna non solo di spaziare dal jazz al blues ma di incontrare personaggi di grande spessore che hanno lasciato un’impronta indelebile nel suo modo di suonare. La recente collaborazione con Larry Carlton credo sia però la più rappresentativa di una maturità espressiva raffinata, fusione di molti generi, basata su un inconfondibile e sofisticato modo si suonare la chitarra.

Bringing it back home, edito dalla Provogue Records – la stessa etichetta dei recenti lavori di Joe Bonamassa, Robert Cray e Popa Chubby – contiene 10 brani, ri-arrangiamento di classici folk, blues e R&B, tutti suonati con la medesima chitarra, una Epiphone Riviera del 1966: tale scelta per mantenere una identità di suono per tutto l’album, sul quale sono stati minimi gli interventi in post produzione – come afferma lo stesso Robben Ford intervistato dalla rivista Premier Guitar (pagg. 74-75-76 #maggio 2013). Il disco è una dimostrazione d’amore per la tradizione musicale americana dalla quale vengono ripescati 8 dei 10 brani del disco interpretati assieme ad un’ottima band: meritano sicuramente una menzione speciale Stephen Baxter al trombone (che riporta Robben al suono degli ottoni, primo suo amore) e Larry Goldings all’organo, sideman di moltissimi grandi artisti (John Scofield, Tracy Chapman, James Taylor, …) oltre che valente tastierista fusion jazz in una ventina di suoi lavori. L’album dal titolo dylaniano si apre con Everything I Do Gonna Be Funky, pezzo spumeggiante di Allen Toussaint che sembra riassumere tutto lo spirito del disco fornendo un assaggio dei vari strumenti e stili dell’intero lavoro improntato alla gioia espressiva del nostro Robben. Dello stesso autore anche la terza traccia Fair Child, dove Robben definisce un ritmo più pressante sempre contraddistinto dal suono limpido della sua chitarra. Uno dei pochi pezzi a sua firma, Oh, Virgina, sia nel titolo che nello stile sembra appartenere al repertorio di James Taylor, anche se la chitarra è nettamente più presente e personale che nei pezzi del coetaneo bostoniano. L’omaggio a Bob Dylan, oltre che nel titolo dell’album, arriva con l’ottava traccia Most Likely You Go Your Way And I’ll Go Mine proveniente dal Blonde on Blonde del 1966 e qui riarrangiata, velocizzata e resa leggera nonostante la storia narrata sia di incomprensione e della decisione di prendere strade diverse. Di Geddins e Fuller è invece il pezzo che chiude il disco, Fool’s Paradise, lento e tenebroso.

Davide Palummo, Maggio 2013

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