GIOVANNI ALLEVI, IL NUOVO DISCO E’ “ALIEN”: INTERVISTA

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Dopo aver venduto qualche milione di dischi e dopo essersi scontrato con musicisti e puristi del suono classico, dopo aver conquistato le classifiche ed aver suonato in una serie di luoghi celebri in Italia e nel mondo, Giovanni Allevi ha deciso di incidere un nuovo disco, Alien. La notizia, di sicuro, farà la gioia di migliaia di fans e pure di parecchi detrattori, visto che nessuno come il quarantunenne Allevi è riuscito in tempi vicini a circondarsi di amori e ostilità così vive e (diciamocelo pure) interessanti. Ascoltando in anteprima l’album, c’è da dire che in questi undici pezzi per piano solo (non c’è orchestra come nell’ultimo Evolution), si celano composizioni insolitamente lunghe (la Sonata in Mib Maggiore è di circa tredici minuti), altre che propongono le abituali atmosfere morbide e rilassanti (le migliori sono Secret love e Lullaby), ma anche pezzi veloci e quasi percussivi (Tokio station e Joly, forse i due titoli migliori del disco) ricchi di riminiscenze jazz.
Piaccia o no, Allevi è una star, un musicista classico che ha centrato il successo nel mondo giovane. Ghiotta, quindi, l’occasione di farci due chiacchere. Reputandomi fortunatamente agnostico nella battaglia tra i pro e i contro, mi sono recato all’incontro con lui (in compagnia di un manipolo di colleghi: i meccanismi della promozione valgono per tutti….) decisamente curioso: chi è costui? Chi si cela davvero dietro quella massa di capelli e quella parlata indaffarata? Confesserò: per antica vocazione anarchico-ribellista, se in troppi danno contro a qualcuno, automaticamente mi viene da simpatizzare. E poi: davvero il successo non dice nulla? La capacità di comunicare (fosse pure quella di Lady Gaga) che interrogativi pone? Con qualche domanda nello zaino e senza pregiudiziali o pregiudizi, mi son trovato davanti l’Allevi che dice di sé e del proprio nuovo disco cose belle e infinitamente più sensate di mille altre dette ed ascoltate da mostri sacri o da musici coerenti. A partire dalle parole usate per raccontare il perché e il percome del titolo scelto: “L’ho chiamato Alien, ma non ha nulla di pericoloso o malvagio. Io non fuggo la realtà come nei film di fantascienza, ma la guardo da vicino con occhi da bambino. Attraverso la musica finisco per guardare le cose con incanto. Nella mia avventura artistica ho voluto esser me stesso e in un mondo in cui siamo soggetti a pressioni estranianti, essere se stessi significa essere alieni. In un mondo di forti, dove serve essere impeccabili, io non ho paura di affermare la mia imperfezione, la mia vulnerabilità…”. Vero? Falso? E’ un genio o un fenomeno costruito? Allo spirito critico di ognuno l’ardua sentenza. Qualcuno ha carinamente definito le sue composizioni “musica da ascensore”. Magari è così. Ma in fin dei conti anche Brian Eno aveva inciso un’indimenticabile Musica per aeroporti…

Allevi: cosa c’è di nuovo in questo disco rispetto al passato e cosa, invece, ritieni sia in una linea di continuità con i brani che hai già inciso?
Guarda, io sono un hegeliano convinto e quindi ho la convinzione che uno raggiunge dei risultati e poi si migliora portandosi dietro il patrimonio di cose già raggiunte. Quindi in questo cd ci sono convinzioni del passato che ho mantenuto e cose diverse, nuove maturazioni e visioni cresciute in tempi più recenti. Tra le novità, ad esempio, mi sono concentrato sulla forma sonata: l’ho presa e l’ho riempita di elementi di contemporaneità, di nuove ritmiche, di andamenti armonici jazz. Così lavorando sulla forma sonata mi sono nate Tokio station e la Sonata in Mib Maggiore che sono le cose più diverse da quelle che ho fatto sino ad ora. E che definirei… una scelta azzardata.

Un azzardo: e perché mai?

Perché in un mondo di ascolti brevi, propongo delle trame musicali lunghe, che costringono un certo impegno nell’ascolto. E se posso permettermi questo azzardo lo devo ai miei fan, a tutti quei giovani che mi vogliono bene e mi seguono. E’ grazie a loro che posso permettermi certe libertà d’espressione.

Questo c’entra direttamente con il successo: la libertà dell’artista dipende dal suo pubblico?
Il successo altro non è che la possibilità di esprimermi liberamente. Quelli che mi seguono mi hanno aperto le porte del mondo: grazie a loro, l’ho già detto, non sono limitato agli standard della forma canzone, non ho l’ansia di scrivere un pezzo di tre minuti pensando che funzioni alla radio.

Un disco nasce sempre come miscela di creatività propria e di suggestioni esterne, di stimoli. Questo Alien da dove viene?
Prima di tutto non è così scontata questa forza delle influenze esterne e della realtà, perché spesso, soprattutto nella cosiddetta musica colta, si punta a dimostrare che ogni artista punta a realizzare il “nuovo assoluto”, che invece non esiste. Prendiamo Bach: enorme, irraggiungibile proprio perché era un grande assimilatore.

E le influenze che tu hai assorbito in questo lavoro discografico?
Ci sono dentro i ritmi che respiro, la musica che ascolto. C’è Thelonius Monk, Keith Jarret, Chick Corea. E c’è anche Jovanotti, che dal punto di vista ritmico ha avuto una grandissima influenza su di me. E per finire direi che c’è anche tantissimo hip hop…

Vuoi dirmi che abitualmente sei uno che ascolta anche rap e ritmi simili?
Onestamente no. Ad esempio quando sono in auto ascolto Mahler e – negli ultimi tempi – tanta musica del rinascimento e John Cage. Però tutti noi siamo immersi in un brodo musicale da cui non sfuggiamo e che anche inconsciamente acquisiamo. Semmai il problema è che sono troppi gli input che riceviamo, visto che viviamo nell’epoca dell’eccesso di informazioni. Per questo io – pur riconoscendo le influenze – insisto sempre nel lavorare sugli strumenti classici, perché mi riportano a qualcosa di essenziale, qualcosa di eterno.

Lavori solo sulla musica strumentale: non ti manca l’uso delle parole?
No, non mi mancano le parole. Perché sono convinto che l’opera d’arte si realizza nell’ascoltatore, più che nel musicista. E’ il mondo interiore dell’ascoltatore che è più libero di emergere nel incontro con la musica strumentale.

Negli anni scorsi hai suscitato passioni contrastante: tanti fans, ma anche tante critiche viscerali. Tutto questo cosa ti ha lasciato?
Nei primi tempi ci sono rimasto malissimo, poi ho capito le ragioni della critica spietata. Ora diciamo che sono fiero di quelle critiche: se personaggi di grande talento si sono scomodati vuol dire che sono davvero pericoloso. Le critiche sono arrivate perché ho fatto davvero qualcosa di importante. L’artista destabilizza. L’artista che non crea dibattito ma solo ripetizione dello status quo, non infastidisce nessuno. E quindi sono fiero di non appartenere alla categoria di chi suonando lascia tutto come prima.

Walter Gatti

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