DEMETRIO STRATOS, UNA VOCE ALLA RICERCA DI….

DemetrioStratos.jpg Demetrio Stratos image by Jake_F_Aces Cosa cercava Demetrio Stratos? Cosa inseguiva nei dieci anni della sua “carriera musicale”? Ragazzino ortodosso cresciuto ad Alessandria d’Egitto in una famiglia greca, Demetrio è cresciuto tra riti bizantini e musicalità arabe. Poi, passando per gli anni scolastici vissuti a Cipro, arriva a Milano, si innamora del beat e del rock’n’roll, entra nel “giro” di Adriano Celentano e diventa voce e tastiera dei Ribelli di Gino Santercole. È qui che il suo nome inizia a lasciare un piccolo segno (ricco di grande personalità), con l’interpretazione di una delle più belle canzoni-beat dell’Italia del boom: Pugni chiusi: “Pugni chiusi, non ho più speranze, per me c’è la notte più nera”. È la rampa di lancio per il ragazzo ortodosso, che a ventisette anni, nel 1972, con Victor Busnello al sax, Patrick Djivas al basso, Patrizio Fariselli al piano, Paolo Tofani alla chitarra e Giulio Capitozzo alla batteria, forma gli Area.
Sembra solo un avventura, in quel tempo in cui rock-progressive, sperimentazioni e ideologia danno vita in Italia a formazioni che nascono e spariscono in breve tempo; e invece gli Area diventano insieme alla Premiata Forneria Marconi la più importante band del rock italiano.
Il giovane Stratos non è più il ragazzino-beat dalla voce potente e inconfondibile: tra gli anni dei Ribelli (nome profetico…) e gli Area c’è quella che una volta si chiamava una raggiunta “coscienza politica”, c’è la contestazione, la coscienza ideologica, le letture anarchiche, la frequentazione di Gianni Sassi, che diventerà l’agitatore ideologico della band, lo sviluppo di nuove forme di esibizione musicale, concepite ormai come forme di espressione politica e di lotta di classe. Senza mezze misure culturali e senza remore politiche, confezionando un melange di jazz-rock e improvvisazione, musica etnica ed elettronica, gli Area incidono “Arbeit macht frei” (73), “Caution radiation area” (74), “Crac” (75), il live “Are(A)zione” (75) e “Maledetti” (76).
Gli Area che personalmente ho visto a Lodi nel ’75, in quella chiesa sconsacrata che sarebbe diventato il teatro alle Vigne (e che allora era una palestra di pugilato, sede di incontri di boxe: a quei tempi luogo improbabile e felliniano) e poi nel ’76 al Parco Lambro, erano una band potentissima, che portava una visione di rara avanguardia, che arrivava a coinvolgere il pubblico nella costruzione dei pezzi, che lasciava spazi immensi all’improvvisazione, che alternava pezzi diventati leggendari nella loro aggressività ideologica come Luglio, agosto e settembre nero (“giocare con il mondo/ facendolo a pezzi/ bambini che il solo ha ridotto già vecchi….”) a Cometa rossa e a L’abbattimento dello Zeppelin (“tutti dicono che è colpa mia/ viaggiava nel cielo gonfiato di vento/ sembrava ubriaco di un grande potere”).

Demetrio, non interessato ai “testi” quanto alla loro rappresentazione vocale, diventa la voce più sconvolgente del rock: non solo in Italia, ma pure in giro per il mondo non ci sono altri vocalist così innovativi. Ma lui non sta fermo al punto raggiunto: Demetrio non è tutto lì, nei pur innovativi schemi degli Area, nella catena sonora-popolare di Fariselli e del suo synth. Sono sempre più frequenti le puntate del cantante verso Padova, dove inizia a collaborare con il dipartimento di glottologia dell’università e con il Cnr. È interessato al suono, alla voce, alle frequenze possibili (gli vengono misurate frequenze 5-6 volte più alte di quelle raggiunte da un soprano), all’ampliamento del canto secondo antiche forme di vocalità; inizia a sperimentare diplofonie, trifonie e quadrifonie, trovando la strada per arrivare ad emettere plurivocalità contemporaneamente. La sua è una ricerca biologico-culturale sull’origine della voce, sulla sede della prima nota dell’uomo, misto di fissità e dinamismo.

Quando Stratos lascia gli Area nel 1978 ha già lavorato su due dischi complicatissimi, ma fascinosi di ricerca vocale, “Metrodora” (1976) e “Cantare la voce” (un lavoro eccezionale del ’78; recentemente è uscito con lo stesso titolo un Dvd che merita l’archivio in ogni collezione musicale che voglia avere un minimo di dignità e decenza), ha studiato le influenze mongole sulla musicalità asiatica e vuole immergersi sempre di più in percorsi non-rock, non-jazz, non-usuali, nella ricerca entusiasta di strade che lo portino sempre più verso l’origine, verso l’ancestrale, verso il “puro”.
A New York si coinvolge negli ambienti in cui la ricerca-etnomusicale, la danza, il teatro e l’arte di scena si sposano, entra in contatto John Cage, Andy Warhol, Merce Cunningham. Incredibile in questo periodo la varietà delle sue esperienze: canta rock’n’roll allo stato puro (Rock’n’roll exhibition con Tofani, Mauro Pagani, Walter Calloni e Stefano Cerri), intona etno-rock italiano (con i Carnascialia di Mauro Pagani), e si rituffa nel jazz-rock politicizzato e libertario (La cantata rossa per Taal al Zaatar di Gaetano Liguori). Tutto prima della fine, improvvisa, per una leucemia violentissima, che se l’è portato via il 13 giugno ’79, a New York, a 34 anni.

Scompare portando con se dischi, sogni, canzoni, progetti. Ma lasciando qualcosa di umanamente palpabile: l’energia della ricerca. Demetrio cercava. Cercava sempre. Cercava oltre le canzoni, oltre il suono. Andava a cercare il senso della voce. Cosa c’è da cantare? Da dove viene la voce? Sono domande. Le interviste, gli interventi di quei giorni raccontano di un uomo che cercava ben oltre quello che stava producendo. Era coinvolto solo nella ricerca di quello che era il luogo da cui veniva la necessità per l’uomo di cantare, un misto di luogo fisico (il baricentro del respiro?) e luogo spirituale, luogo di libertà in grado di svincolare tutta l’esperienza artistica da vincoli e retaggi culturali, produttivi, discografici. Miraggi? Utopie in un epoca di utopie? Forse. Di certo la PFM gli ha dedicato una delle sue più belle canzoni, Maestro della voce, per ricordarlo per quell’inarrivabile vocalist che è stato. Ma forse alla base di tutto, anche oltre il suo cantato eccezionale, c’era quell’insopprimibile ricerca: un modo di stare dentro la musica che potrebbe far sentire Demetrio vicino a chiunque.

Walter Gatti

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